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martedì 25 aprile 2017

: COLERA A NAPOLI (1973), CAUSE E PREGIUDIZIO


Angelo Forgione – A causa di cozze importate dalla Tunisia, nel 1973 Napoli vive un’epidemia di colera che colpisce anche Palermo, Bari, Cagliari e Barcellona. Ma le responsabilità vengono addossate ai Napoletani e alle condizioni igieniche della città e del suo mare, pur carenti ma non decisive.
Ne segue un feroce accanimento mediatico che non tiene conto invece delle positività espresse in un momento critico dalla città che consentono di superare la crisi velocemente mentre altrove perdura per anni. L’immagine di Napoli ne esce ancora una volta con le ossa rotte, con conseguente crisi del turismo

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venerdì 14 aprile 2017

Giovanni Rodari, detto Gian Franco, in arte Gianni (Omegna, 23 ottobre 1920 – Roma, 14 aprile 1980), è stato uno scrittore, pedagogista, giornalista e poeta italiano, specializzato in testi per bambini e ragazzi e tradotto in moltissime lingue.

Vincitore del prestigioso Premio Hans Christian Andersen (edizione 1970), fu uno tra i maggiori interpreti del tema "fantastico" nonché, grazie alla Grammatica della fantasia, sua opera principale, uno fra i principali teorici dell'arte di inventare storie.
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Vorrei.
Vorrei un gennaio
col sole d'aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile
vorrei un giorno senza sera
vorrei un mare senza bufera

vorrei un pane sempre fresco
sul cipresso il fiore del pesco
che siano amici il gatto e il cane
che diano latte le fontane
Se voglio troppo....
va beh... non darmi niente
solo una faccia.
 ... 


 ...

Il  Cielo E' Di Tutti.

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi
di ogni occhio è il cielo intero.

È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell'ortolano,
del poeta, dello spazzino.

Non c'è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.

Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.

Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.

Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.
...

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Cipollino e il cavalier Pomodoro in un francobollo russo del 1992

sabato 3 ottobre 2015

Come si diffondono le leggende metropolitane.



In passato le leggende nascevano laddove regnava l'irrazionalità, e queste avevano proprio lo scopo di razionalizzare ciò che razionale non appariva, per infondere uno stato di apparente sollievo e comprensione a chi ne avesse avuto bisogno. Da questo punto di vista non è cambiato nulla, a riprova del fatto che le leggende metropolitane sono il frutto del folklore moderno. L'uomo deve sempre trovare qualcosa che spieghi fenomeni altrimenti incontrollabili; anche se le storie sono campate in aria, basta che siano sufficienti a dare corpo ai fantasmi e placare così l'ansia. Più in generale possiamo dire che molti racconti ci turbano proprio perché parlano del diverso, l'animale esotico e feroce, il nero, il tossicodipendente; e proprio per questo la base narrativa e culturale da cui quasi tutte le leggende metropolitane traggono origine sono propri i pregiudizi e gli stereotipi.

Il protagonista, il primo autore di queste leggende, non si trova praticamente mai. È successo ad esempio nel 1989, quando, proprio per dimostrare la velocità di diffusione di una voce, lo psichiatra napoletano Claudio Ciaravolo fece sapere in giro che sui banchi del mercato di Forcella si potevano trovare delle magliette con, dipinta sopra, la cintura di sicurezza, permettendo così all'autista che l'avesse indossata, di non allacciare l'odiato strumento.
Quotidiani, periodici, telegiornali sono caduti nella trappola e hanno pubblicizzato le fantomatiche magliette, come dimostrazio
ne della brillante creatività partenopea. Il suo scopo era quello di studiare la diffusione di una voce messa in circuito e la sua velocità di trasmissione; nonostante il suo "creatore" abbia più volte sottolineato che si trattava di un esperimento, sono tutt'oggi molti che considerano il fatto reale. L'esperimento della maglietta di sicurezza convalida l'idea che ad alimentare le leggende urbane è la tendenza a valorizzare ciò che è in linea con le nostre aspettative sociali e con il nostro sistema di credenze e pregiudizi.

Il fatto che queste storie resistano a lungo tempo, diffondendosi velocemente tra le persone, dipende dal fenomeno chiamato "legge del passaparola". Ormai è noto come sia più convincente il messaggio giunto da un nostro amico o da un conoscente piuttosto che da uno spot pubblicitario tradizionale. Nel primo caso, infatti, la persona che riceve l'informazione è più disponibile psicologicamente ad accettarla essendo sicura che non esiste alcun interesse economico personale nascosto. Le leggende metropolitane si diffondono nelle grandi città poiché queste dispongono in quantità del mezzi di produzione del passaparola: piazze, scuole, bar, luoghi di ritrovo e centri di socializzazione. Il successo del passaparola è infine completo quando c'è un ritorno del messaggio, ossia quando la persona che partecipa alla trasmissione finisce per riceverlo. Allora l'invenzione diventa certezza, notizia. E continuerà, proprio perché mai verificabile, a circolare tra la gente, riproposta periodicamente in luoghi e tempi diversi.

Fonte



venerdì 18 settembre 2015

La Storia Dimenticata


Quando gli schiavi eravamo noi 

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Nelle storie generali della schiavitù, e non ne mancano, lo scenario mediterraneo è spesso del tutto assente, o viene comunque considerato di trascurabile interesse possiamo quindi dedurre che la schiavitù dei bianchi da parte dei nord africani è stata ampiamente ignorata.
Invece da sempre quello che i Romani chiamavano il mare nostrum, grazie alla sua posizione privilegiata è stato teatro di attivita' marinaresca, commercio, migrazione , traffico piratesco legato al commercio degli schiavi .


La Costa dei Barbari, che si estende dal Marocco fino all’attuale Libia, fu sede di una fiorente industria del rapimento di esseri umani dal 1500 fino al 1800 circa .
Le grandi capitali del traffico di schiavi furono Salé in Marocco, Tunisi, Algeri e Tripoli, e durante la maggior parte di questo periodo le marine europee erano troppo deboli per opporre più che una resistenza simbolica. Il traffico transatlantico dei neri era puramente commerciale, ma per gli arabi, i ricordi delle crociate e la rabbia per essere stati espulsi dalla Spagna nel 1492 sembrano aver determinato una campagna di rapimenti dei cristiani, quasi simile ad una Jihad.La conquista islamica di paesi come l'Egitto e la Siria aveva fornito, ai musulmani, abili navigatori che vivevano su quelle coste, permettendo la creazione in un tempo relativamente breve di una flotta capace di insidiare la supremazia bizantina nel Mediterraneo.
Soprattutto sulla costa nordafricana e su quella spagnola si erano andati costituendo vari emirati dove la componente locale si fuse presto con quella araba e berbera. Ciascun emirato aveva a capo un emiro il quale, a parte una formale sudditanza ad uno dei tre califfi che tra VIII e IX secolo si spartivano l'Impero islamico (Cordova, Cairo e Baghdad), erano sostanzialmente indipendenti.

Le incursioni

Durante i secoli XVI e XVII furono condotti più schiavi verso sud attraverso il Mediterraneo che verso ovest attraverso l’Atlantico. Alcuni furono restituiti alle loro famiglie in cambio di un riscatto, alcuni furono utilizzati per lavoro forzato in Africa del Nord e i meno fortunati morirono di fatica come schiavi nelle galere.
Ciò che più colpisce circa le razzie barbaresche è la loro ampiezza e la loro portata. I pirati rapivano la maggior parte dei loro schiavi intercettando imbarcazioni, ma organizzavano anche enormi assalti anfibi che praticamente spopolavano parti della costa italiana. L’Italia è il bersaglio più apprezzato, in parte perché la Sicilia è solo a 200 km da Tunisi, ma anche perché non aveva un governo centrale forte che potesse resistere all’invasione.
Quando i pirati hanno saccheggiato Vieste nell’Italia meridionale nel 1554, ad esempio, rapirono uno stupefacente totale di 6.000 prigionieri. Gli algerini presero 7.000 schiavi nel Golfo di Napoli nel 1544, un raid che fece crollare il prezzo degli schiavi a tal punto che si diceva che si poteva «scambiare un cristiano per una cipolla».
Anche la Spagna subì attacchi su larga scala. Dopo un raid su Grenada nel 1556, che fruttò 4.000 uomini, donne e bambini, si diceva che «piovevano cristiani su Algeri». Si può calcolare che per ognuno di questi grandi raid ce ne siano stati dozzine di minori.

L'abbandono delle coste

La comparsa di una grande flotta poteva far fuggire l’intera popolazione nell’entroterra, svuotando le regioni costiere.
Nel 1566, un gruppo di 6.000 turchi e corsari attraversarono il mare Adriatico e sbarcarono a Francavilla. Le autorità non erano in grado di fare nulla e raccomandarono l’evacuazione completa, lasciando ai turchi il controllo di più di 1300 chilometri quadrati di villaggi abbandonati fino a Serracapriola.
Quando apparivano i pirati, la gente spesso fuggiva dalla costa per andare alla città più vicina, ma questa non era sempre una buona strategia: «più di una città di medie dimensioni, affollata di profughi, si trovò nell’impossibilità di sostenere un assalto frontale di molte centinaia di corsari e reis [capitano dei corsari] che altrimenti avrebbero dovuto cercare schiavi a poche dozzine per volta lungo le spiagge e sulle colline, potevano trovare un migliaio o più di prigionieri comodamente raccolti in un unico luogo per essere catturati.I pirati tornavano continuamente a saccheggiare lo stesso territorio. Oltre a un numero molto maggiore di piccole incursioni, la costa calabra subì le seguenti depredazioni, sempre più gravi in meno di dieci anni: 700 persone catturate in un singolo raid nel 1636, un migliaio nel 1639 e 4.000 nel 1644.

Durante il XVI e XVII secolo, i pirati installarono basi semi-permanenti sulle isole di Ischia e Procida, quasi all’imboccatura del Golfo di Napoli, da cui organizzavano il loro traffico commerciale.
Quando sbarcavano sulla riva, i corsari musulmani non mancavano di profanare le chiese. Spesso rubavano le campane, non solo perché il metallo aveva valore, ma anche per ridurre al silenzio la voce inconfondibile del Cristianesimo.Nelle più frequenti piccole incursioni, un piccolo numero di barche operavano furtivamente, piombando sugli insediamenti costieri nel cuore della notte per catturare gli uomini «tranquilli e ancora nudi nel loro letto». Questa pratica diede origine alla moderna espressione siciliana, pigliato dai turchi, , che significa essere colto di sorpresa, addormentato o sconvolto.

Un terribile numero di vittime in Sicilia

L'opera di conquista musulmana della Sicilia e di parti dell'Italia meridionale durò 75 anni. I primi attacchi navali islamici diretti in Sicilia, regione dell'Impero romano d'Oriente, si verificarono nel 652: queste incursioni furono organizzate all'epoca in cui il futuro califfo omayyade Mu'awiya ibn Abi Sufyan era wali della Siria, da poco conquistata all'Impero bizantino, e furono condotte da Mu'awiya ibn Hudayj della tribù dei Kinda. Le razzie durarono alcuni anni; l'esarca di Ravenna Olimpio organizzò una spedizione per frenare le razzie, ma non riuscì ad impedire che gli arabi portassero via con sé un ricco bottino.

Una seconda spedizione si verificò nel 669. La spedizione era composta da 200 navi da Alessandria d'Egitto. Venne saccheggiata per un mese Siracusa, capitale dell'isola, e il territorio circostante. Completata nel VII secolo la conquista da parte degli Omayyadi dell'Ifriqiya, gli attacchi alla Sicilia a scopo di saccheggio si fecero costanti: ne avvennero nel 703, 728, 729, 730, 731; nel 733 e 734 la reazione militare bizantina fu notevole.
La prima vera spedizione per la conquista dell'isola fu lanciata nel 740: il principe musulmano Habib, che aveva partecipato all'occupazione del 728 di Siracusa, iniziò l'impresa ma fu costretto a rinunciarvi per la necessità di sedare una rivolta berbera in Tunisia. Un nuovo attacco fu portato a Siracusa nel 752.
Nel 805, il patrizio imperiale di Sicilia Costantino firmò una tregua di dieci anni con Ibrahim ibn al-Aghlab, emiro d'Ifriqiya (nome che gli invasori arabi dettero alla romana Provincia Africa), ma questo non fu un impedimento per i corsari provenienti dall'Africa e della Spagna musulmana ad attaccare ripetutamente tra l'806 e l'821 la Sardegna e la Corsica. Nell'812 il figlio di Ibrahim, Abd Allah I, ordinò una invasione vigorosa della Sicilia, ma le sue navi furono prima di ostacolate dall'intervento di Gaeta e Amalfi, e poi distrutte in gran parte da una tempesta. Tuttavia, essi riuscirono a conquistare l'isola di Lampedusa e, nel mar Tirreno, a depredare e devastare Ponza e Ischia. Un ulteriore accordo tra il nuovo patrizio Gregorio e l'emiro stabilì la libertà di commercio tra l'Italia meridionale e l'Ifriqiya. Dopo un ulteriore attacco di Muhammad ibn Abd Allah, cugino dell'emiro Ziyadat Allah I nell'819, sulle fonti non sono citati attacchi musulmani verso la Sicilia fino all'827.Il terrore per le razzie dei Saraceni, che depredavano e rapivano uomini, donne e fanciulli, è rimasto vivo nell’espressione popolare “Mamma li Turchi” e anche nei canti popolari: Li Turchi sunu iunti alla marina, all’ordini cuteddi e cutiddina, scupetti, baddi, pruvuli e lupari… Fra le innumerevoli vittime dei frequenti raid musulmani, figura anche un Santo, Antonio Nigro, catturato presso Vendicari e impiccato con altri cristiani a Tunisi il 15-1-1500 .
Molto numerosi furono i cristiani fatti schiavi dai pirati, parecchi dei quali furono riscattati con grosse somme di denaro. Alcuni, convertiti all’Islam, riuscirono ad occupare alti gradi ed avere notevole parte nella storia degli Stati Barbareschi. Grazie a loro si diffuse in Barberia la cd. “lingua franca”, un miscuglio di lingue mediterranee, con prevalenza di Italiano e Spagnolo.


Gli attacchi di terra potevano essere molto fruttuosi, ma erano più rischiosi delle catture in mare. Le navi erano quindi la principale fonte di schiavi bianchi. A differenza delle loro vittime, le navi dei corsari avevano due mezzi di propulsione: gli schiavi delle galee oltre alle vele. Ciò significava che potevano avanzare a remi verso un’imbarcazione ferma per la bonaccia e attaccarla quando volevano. Avevano molte bandiere diverse, così quando navigavano potevano issare quella che meglio poteva ingannare le prede.
Una nave mercantile di buone dimensioni poteva trasportare circa 20 marinai abbastanza sani da poter sopportare qualche anno nelle galere, e i passeggeri erano generalmente buoni per ottenere un riscatto. I nobili e i ricchi mercanti erano prede allettanti, così come gli ebrei, che potevano generalmente fornire un forte riscatto da parte dei loro correligionari. Anche alti dignitari del clero erano preziosi perché il Vaticano era solito pagare qualsiasi prezzo per sottrarli alle mani degli infedeli.
All’arrivo di pirati, spesso i passeggeri si toglievano i vestiti belli e tentavano di vestirsi il più poveramente possibile, nella speranza che loro rapitori li restituissero alla loro famiglia per un riscatto modesto. Lo sforzo era inutile se i pirati torturavano il capitano per avere informazioni sui passeggeri. Era inoltre consuetudine far spogliare gli uomini, sia per cercare oggetti di valore cuciti nei vestiti, sia per verificare che non ci fossero ebrei circoncisi travestiti da cristiani.

Le sfilate dei cristiani prigionieri all'arrivo in Africa

Se i pirati erano a corto di schiavi per le galee, potevano mettere immediatamente al lavoro alcuni dei loro prigionieri, ma i prigionieri erano solitamente messi nella stiva per il viaggio di ritorno. Erano ammassati, potevano a malapena muoversi in mezzo a sporcizia, fetore e parassiti, e molti morivano prima di raggiungere il porto.
All’arrivo in Nord Africa, era d’uso far sfilare per le strade i cristiani appena catturati, affinché la gente potesse schernirli e i bambini coprirli di immondizia.
Al mercato degli schiavi, gli uomini erano costretti a saltellare per dimostrare che non erano zoppi, e gli acquirenti spesso li volevano far mettere nudi per vedere se erano in buona salute. Ciò permetteva anche di valutare il valore sessuale di uomini e donne; le concubine bianche avevano grande valore, e tutte le capitali dello schiavismo avevano una fiorente rete omosessuale. Gli acquirenti che speravano di fare rapidi guadagni con un forte riscatto, esaminavano lobi delle orecchie per trovare segni di piercing, che era un’indicazione della ricchezza. Inoltre si usava guardare i denti per vedere se fossero in grado di sopportare un duro regime di schiavo.
Il Pasha, cioè il governatore della regione, riceveva una certa percentuale di schiavi come una forma di imposta sul reddito. Questi erano quasi sempre uomini e diventavano proprietà del governo, piuttosto che proprietà privata. A differenza degli schiavi privati che solitamente si imbarcavano con il loro padrone, questi vivevano nei «bagni», come erano chiamati i negozi di schiavi del Pascià. Agli schiavi pubblici venivano solitamente rase la testa e la barba come ulteriore umiliazione, in un tempo in cui la capigliatura e la barba erano una parte importante dell’identità maschile.

Grave forma di schiavitu'

La maggior parte di questi schiavi pubblici trascorrevano il resto della propria vita come schiavi sulle galee, ed è difficile immaginare un’esistenza più miserabile. Gli uomini erano incatenati tre, quattro o cinque ad ogni remo, e anche le loro caviglie erano incatenate insieme. I rematori non lasciavano mai il loro remo, e quando veniva loro concesso di dormire, dormivano sul loro banco. Gli schiavi avrebbero potuto spingersi a vicenda per defecare in un’apertura dello scafo, ma spesso erano troppo esausti o scoraggiati per muoversi e si liberavano sul posto. Non avevano alcuna protezione contro il sole cocente del Mediterraneo, e il loro padrone sfregiava le schiene già provate con lo strumento di incoraggiamento preferito del padrone di schiavi: un pene di bue allungato o “nerbo di bue”. Non c’era quasi nessuna speranza di fuga o di aiuto; il compito dello schiavo era quello di ammazzarsi di fatica – principalmente in incursioni per catturare altri disgraziati come lui – e suo padrone lo gettava in mare al primo segno di malattia grave.
Altri schiavi sulla Costa dei Barbari avevano i lavori più vari. Spesso svolgevano lavori domestici o agricoli del genere che noi associamo alla schiavitù in America, ma quelli che avevano qualche competenza venivano spesso affittati dai loro proprietari. Alcuni proprietari mandavano in giro i loro schiavi durante il giorno con l’ordine di tornare la sera con una certa quantità di soldi, sotto pena di essere duramente picchiati. I padroni sembravano aspettarsi un profitto di circa il 20% sul prezzo di acquisto. Qualunque cosa facessero, a Tunisi e Tripoli, gli schiavi dovevano tenere un anello di ferro attorno a una caviglia e una catena di 11 o 14 kg di peso.
Alcuni proprietari mettevano i loro schiavi bianchi a lavorare in fattorie lontane verso l’interno, dove correvano un altro rischio: la cattura e una nuova schiavitù dalle incursioni berbere. Questi infelici probabilmente non avrebbero mai più visto un altro europeo per il resto della loro breve vita.
Il Professor Davis osserva che non c’era nessun ostacolo alla crudeltà: «Non c’era alcuna forza equivalente per proteggere lo schiavo dalla violenza del suo padrone: nessuna legge locale contro la crudeltà, nessuna opinione pubblica benevola e raramente pressioni efficaci da parte di stati stranieri.

Le tremende punizioni

Gli schiavi bianchi non erano solo merci, erano infedeli e meritavano tutte le sofferenze che il padrone infliggeva loro.
. La punizione preferita era fustigazione, in cui un uomo veniva messo sulla schiena con le caviglie legate per essere battuto a lungo sulle piante dei piedi.
Gli schiavi pubblici contribuivano anche ad un fondo per mantenere i sacerdoti del bagno. Era un’epoca molto religiosa e anche nelle condizioni più terribili gli uomini volevano avere la possibilità di confessarsi e, soprattutto, di ricevere l’estrema unzione. C’era quasi sempre un sacerdote prigioniero o due nel bagno, ma perché fosse disponibile per i suoi compiti religiosi, gli altri schiavi dovevano contribuire e riscattare il suo tempo al pasha. Alcuni schiavi di galee dunque non avevano più niente per comprare cibo o vestiti, sebbene in certi periodi degli europei liberi che vivevano nelle città della Costa dei Barbari contribuissero al mantenimento dei sacerdoti.

Le richieste di riscatto alle famiglie

Per gli schiavi, la fuga era impossibile. Erano troppo lontani da casa, spesso erano incatenati ed erano immediatamente identificabili dai loro tratti europei. L’unica speranza era il riscatto.
Questo dei rapimenti con lo scopo di ottenere un riscatto era un business che dava molti soldi un po’ a tutti. Ai corsari, ai turchi e agli intermediari europei (francesi, veneziani e genovesi). Chi ne pagava le spese erano ovviamente i rapiti, soprattutto sardi, siciliani, campani e calabresi.
A volte la salvezza arrivava in fretta. Se un gruppo di pirati aveva già catturato tanti uomini che non c’era più abbastanza spazio sotto il ponte, poteva fare un’incursione in una città e poi tornare qualche giorno più tardi per rivendere i prigionieri alle loro famiglie. Era di solito ad un prezzo notevolmente inferiore a quello del riscatto di chi si trovava nell’Africa del Nord, ma era molto di più di quanto i contadini potessero permettersi. Gli agricoltori normalmente non avevano denaro in contanti e non avevano altri beni che la casa e la terra. Un mercante era generalmente disposto ad acquistarlo a modico prezzo, ma ciò significava che un prigioniero tornava in una famiglia completamente rovinata.
La maggior parte degli schiavi potevano prospettarsi il ritorno solo dopo essere passati attraverso il calvario del passaggio in un paese del Nordafrica e la vendita a uno speculatore. I prigionieri ricchi generalmente potevano trovare un riscatto sufficiente, ma la maggior parte dei schiavi non potevano. I contadini analfabeti non potevano scrivere a casa e anche se lo avessero fatto, non c’erano soldi per un riscatto.La maggior parte degli schiavi dipendeva dall’opera caritatevole dei Trinitari (fondata in Italia nel 1193) e dei Mercedari (fondata in Spagna nel 1203). Questi gli ordini religiosi erano stati fondati per liberare i crociati detenuti dai musulmani, ma ben presto passarono a dedicarsi all’opera di riscatto degli schiavi detenuti dai barbareschi, raccogliendo denaro appositamente per questo scopo. Spesso mettevano davanti alle chiese delle cassette con la scritta «per il recupero dei poveri schiavi», e il clero invitava i cristiani ricchi a lasciare soldi per l’esaudimento dei loro voti. I due ordini divennero abili negoziatori e riuscivano a riscattare gli schiavi a prezzi migliori di quelli ottenuti da liberatori insesperti.

Il numero degli schiavi

Gli archivi suggeriscono che dal 1580 al 1680 c’è stata una media di circa 35.000 schiavi nei paesi di Barberia. C’era una perdita costante per morti e riscatti, così se la popolazione rimaneva costante, il tasso di cattura di nuovi schiavi da parte dei pirati doveva essere tale da pareggiare le perdite. C’è una buona base per stimare il numero dei decessi. Per esempio, sappiamo che dei quasi 400 islandesi catturati nel 1627, solo 70 erano ancora vivi otto anni più tardi. Oltre alla malnutrizione, al sovraffollamento, all’eccesso di lavoro e alle punizioni brutali, gli schiavi subivano delle epidemie di peste, che eliminavano solitamente il 20 o 30% degli schiavi bianchi.
In base a un certo numero di fonti, il Professor Davis calcola pertanto che il tasso di mortalità era circa il 20% all’anno. Gli schiavi non avevano accesso alle donne, quindi la sostituzione avveniva esclusivamente per mezzo delle catture.Tra il 1530 e il 1780, quasi certamente 1 milione e probabilmente fino a 1 milione e un quarto di cristiani europei bianchi sono stati ridotti in schiavitù dai musulmani della Costa dei Barbari

Fonte 

MICHELEMMA' narra la storia di una bellissima donna presa in ostaggio dai mori, ma tanto ostinata nel rifiutarsi di far morire tutti gli amanti rapitori.
Ricordando il terrore delle genti mediterranee per le incursioni saracene ascoltiamola cantata da Sergio Bruni.

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